L’Era della plastica

La plastica pervade oramai i nostri mari con pesanti ripercussioni sull’uomo e sull’ambiente. Il mondo scientifico pone l’attenzione su questa importante problematica con numerosi studi e progetti dedicati al monitoraggio dei rifiuti dispersi in mare e lungo le coste.

di Marina Locritani e Silvia Merlino

Il termine plastica si applica ad una vasta gamma di materiali con proprietà diverse ed incredibilmente versatili. Sono economici, leggeri, resistenti, durevoli, hanno un elevato isolamento termico ed elettrico. La plastica è costituita da polimeri sintetici, macromolecole derivate da petrolio o gas, ma anche da materiale biologico con aggiunta di additivi chimici (bio massa). La diversità dei polimeri e la versatilità delle loro proprietà facilitano la produzione di una vasta gamma di prodotti in plastica che portano a progressi tecnologici, risparmi energetici e numerosi altri vantaggi per la società.

Il primo polimero sintetico, la bachelite, è stato sviluppato dal chimico belga Leo Baekeland nel 1907. Molte altre materie plastiche furono successivamente sviluppate nel corso dei pochi successivi decenni. La produzione di oggetti di utilizzo comune in plastica è iniziata a partire dagli anni 40’ e 50’ e ha preso realmente piede dagli anni 60′ in poi.

Qual è l’impatto della plastica sul pianeta?

E’ quindi da circa un centinaio di anni che la plastica è entrata nella vita dell’uomo. E purtroppo è da circa un centinaio di anni che viene puntualmente rilasciata e dispersa sul nostro Pianeta. Il collettore della maggior parte dei rifiuti plastici non correttamente smaltiti o riciclati è l’oceano. Se non si interrompe lo sversamento dei rifiuti di plastica, nel 2025 il rapporto tra quantitativo di plastica e pesci sarà di uno a cinque e nel 2050 la percentuale di plastica in mare sarà maggiore di quella di pesce. Questo porterà a gravi conseguenze per tutta la catena alimentare.

I dati sul monitoraggio della presenza di plastiche in mare hanno mostrato che ci sono cinque grandi accumuli di plastica negli oceani. Le isole di plastica, così vengono chiamate, sono due nell’oceano Pacifico, due nell’oceano Atlantico e una nell’oceano indiano. Questi accumuli si creano a causa della circolazione marina che è caratterizzata da grandi vortici oceanici che tendono a concentrare le plastiche nella loro parte centrale.

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Distribuzione della plastica negli oceani. La mappa indica le concentrazioni medie negli oceani. Le aree grigie indicano le zone di accumulo previste da un modello globale di circolazione superficiale della corrente, Cozar et al. 2015.
E il Mediterraneo?

Anche il nostro Mare Mediterraneo non è estraneo al problema. Un sesto grande accumulo infatti è stato individuato proprio qui, dove sono concentrate il 7% delle microplastiche totali stimate negli oceani. Il nostro infatti è un mare chiuso e plastiche e microplastiche si accumulano in concentrazioni preoccupanti.

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Distribuzione della plastica nel Mediterraneo – La densità media di plastica che galleggia sulla superficie del Mediterraneo è risultata essere paragonabile alle zone di accumulo descritte per i cinque vortici oceanici subtropicali. Adattato da Cozar et al., 2015.

Ogni anno finiscono nelle acque del mediterraneo 570000 tonnellate di plastica, equivalente a 34000 bottigliette di plastica al minuto. Una delle zone più colpite del Mediterraneo è nel nord Tirreno e al largo dell’isola d’Elba, nella zona che viene denominata Santuario dei Cetacei. In quest’area la concentrazione di rifiuti plastici è di 892.000 frammenti per km2, rispetto alla media mediterranea che è di 115.000.

La quantità di materiale plastico disperso in mare e nelle zone costiere è così in continuo aumento, al punto da rendere inevitabile lo studio dei possibili impatti di tali materiali sull’ecosistema marino. Gli studi hanno dimostrato che gli effetti delle plastiche in mare sono molteplici e dipendono dalle diverse tipologie e dimensioni dei frammenti dispersi. La combinazione di radiazione solare e acqua salata accelera la frammentazione delle plastiche, formando le cosiddette microplastiche che, “confuse” con il fitoplancton, entrano nella catena alimentare dei pesci.

Tutto questo danneggia direttamente anche l’uomo?

L’analisi No Plastic in Nature: Assessing Plastic Ingestion from Nature to People, è stata condotta dall’Università di Newcastle (Australia) su commissione del WWF e si basa su 52 studi preesistenti. Lo studio stima che l’uomo ingerisca (attraverso inalazione, cibo e bevande) circa 2000 pezzi di microplastica ogni settimana, 5 g, ossia l’equivalente di una carta di credito. Gli effetti specifici dell’ingestione di microplastiche sulla salute umana non sono ancora completamente compresi, ma gli scienziati sospettano che il rischio per la salute possa essere più importante di quanto si possa pensare.

Abbiamo descritto brevemente i dati sulla distribuzione superficiale della plastica negli oceani mondiali e nel Mediterraneo. Ma quella che galleggia sulla superficie marina è probabilmente solo la punta di un iceberg perché molti dei rifiuti rilasciati in mare, provenienti principalmente dai fiumi e quindi dall’entroterra, si riversano sulle spiagge e finiscono sui fondali marini. Infatti le plastiche disperse in ambiente marino spesso sono soggette ad incrostazioni. Una volta che la densità dell’oggetto supera quella dell’acqua di mare, affonda all’interno della colonna d’acqua depositandosi sul fondo. Su questi due comparti (mare profondo e coste) c’è ancora molto da studiare.

Il Progetto SEACleaner

Negli ultimi anni il mondo scientifico ha posto l’attenzione su questa problematica e, incoraggiati dalla Comunità Europea, è cresciuto il numero di progetti e di studi dedicati al monitoraggio di rifiuti dispersi in mare e lungo le coste.

L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) è impegnato, sin dal 2013, nel progetto SEACleaner, accanto al Consiglio Nazionale Ricerche – Istituto di Scienze MARine della Spezia (CNR-ISMAR) e al Distretto Ligure delle Tecnologie Marine (DLTM), con il duplice obiettivo di monitorare l’accumulo di rifiuti spiaggiati (beached marine litter) nell’Alto Mar Tirreno e nel Mar Ligure Orientale (incluso il Santuario dei Cetacei), e di sensibilizzare la popolazione su questo delicato argomento. Il progetto ha coinvolto più di 1000 tra studenti e cittadini nel monitoraggio dei rifiuti spiaggiati (vedi anche questo post).

Le spiagge in cui sono stati eseguiti i monitoraggi si dividono in:

  • aree collocate in zone turistiche pulite regolarmente (Urbane, U);
  • aree vicine ai centri urbani, visitate sporadicamente da turisti e pulite solo occasionalmente (Urbanizzate, Uz);
  • zone protette in cui è interdetta la presenza dell’uomo e di regola non soggette a pulizie (Naturali, N).

In particolare i siti scelti sono:

  • A1 – Parco Nazionale delle Cinque Terre, area di tipo U;
  • A2 – Parco Naturale Regionale di Portovenere, area di tipo Uz;
  • A3 – una spiaggia cittadina non inserita in un Parco, Venere Azzurra, area di tipo U;
  • A4 – Parco Naturale Regionale Migliarino, San Rossore-Massaciuccoli, area di tipo N;
  • A5 – Isola di Pianosa (Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano), area di tipo Uz.

In due anni (2014-2015), in un’area di 32.154 m2, sono stati rimossi e classificati 34.027 rifiuti.

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Distribuzione dei marine litter spiaggiati nel Santuario dei Cetacei. La mappa indica le percentuali medie di densità di rifiuti suddivisi in plastica, polistirolo e altri materiali.

 

Spiagge monitorate progetto SEACleaner
Fotografie e ubicazione delle tre spiagge monitorate all’interno del Parco Nazionale delle Cinque Terre, area A1, tipo U. Foto di M. Locritani e S. Merlino.
Fotografie e ubicazione delle tre spiagge monitorate all’interno del Parco Naturale Regionale di Portovenere, area tipo Uz. Foto di M. Locritani e A. Giacchè.
Fotografia e l’ubicazione su una mappa della spiaggia all’interno del Comune di Lerici, Venere Azzurra, area A4, tipo N. Foto di M. Locritani.
Fotografia e ubicazione della spiaggia monitorata all’interno del Parco Naturale Regionale di Migliarino, San Rossore-Massaciuccoli, area A4, tipo N. Foto di M. Locritani.
Isola di Pianosa, monitoraggio progetto SEACleaner
Fotografia e ubicazione della spiaggia monitorata sull’Isola di Pianosa, inserita nel Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, area A5 tipo Uz. Foto di E. Mioni.

I siti con più alta densità di rifiuti sono risultati essere A4, A2 e A5.

L’area A4 è un sito N (Naturali); nonostante non sia accessibile al turismo, il sito è molto vicino alla foce dell’Arno. Di conseguenza raccoglie tutti i rifiuti provenienti dall’entroterra e per la mancanza di pulizie li accumula nel tempo (abbiamo visto rifiuti stratificati nella duna).

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Spiaggia all’interno del Parco Naturale Regionale di Migliarino San Rossore Massaciuccoli (foto di M. Locritani)

L’area A2 è un sito Uz (urbanizzato), sottoposto a pulizie sporadiche e alla presenza limitata del turismo. E’ un sito collocato in prossimità di un porto commerciale con una elevata attività di pesca. Probabilmente questo causa l’alta percentuale di polistirolo raccolta in questa località.

Il sito A5 è un altro sito Uz, lontano da fonti di inquinamento (città o fiumi), interdetto all’uomo e sottoposto a pulizie sporadiche. Mostra una densità di rifiuti maggiore delle due restanti aree A1 e A3 entrambe U (urbane), sottoposte ad una regolare pressione turistica e antropica e con pulizie periodiche e regolari.

I primi risultati

La plastica è risultata essere molto più abbondante nei siti interdetti al turismo (N) o poco frequentati, come si può vedere dalla mappa: il 71,37% nell’area A4 e l’89,10% nell’area A5, mentre è meno abbondante negli altri siti. Questo è dovuto probabilmente al fatto, che il principale apporto di rifiuti proviene dal mare.

Il risultato paradossale di questo studio è che la maggior parte di marine litter è stata raccolta nelle aree a maggior protezione ambientale, dove non è consentito l’accesso al turismo e dove non vengono effettuate pulizie della spiaggia.

Le aree maggiormente protette sono, quindi, quelle in cui la plastica permane più tempo. Queste aree sono inoltre soggette a temperature molto elevate in estate. L’esposizione ad alte temperature accelera la degradazione delle plastiche. Il caldo infatti causa fratture sugli strati superficiali, accentuati dallo stress indotto dall’umidità o dagli agenti meteo-marini, e dall’abrasione contro la sabbia. La riduzione delle dimensioni delle particelle non garantisce la successiva biodegradabilità dei frammenti microplastici. Anzi, questi frammenti sono re-immessi nell’ambiente marino con tutte le problematiche che ne conseguono.

Le Aree Marine Protette ad elevata restrizione, dove non sono concesse le pulizie periodiche, potrebbero diventare quindi potenziali siti sorgenti di microplastiche derivate dall’azione di degradazione solare (fotodegradazione) e meccanica in seguito alla lunga permanenza sulle spiagge.


In copertina immagine di M. Locritani, INGV SP

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