Una stella viva: il campo magnetico del Sole

Uno degli aspetti fisicamente più interessanti del Sole è il suo campo magnetico. Gran parte dei fenomeni più rilevanti e spettacolari che avvengono sulla nostra stella hanno infatti come ingrediente principale proprio questa sua peculiarità. Ma come si manifesta il campo magnetico solare? A quali fenomeni può dare origine e come influenza le proprietà dinamiche del Sole rendendolo così una stella “viva”?

di Fabio Giannattasio

La seconda metà dell’800 e la prima del ‘900 furono teatro di una vera e propria rivoluzione nella storia della Fisica, tante furono le scoperte di immenso spessore conseguite in quel periodo. E questo enorme progresso di conoscenze ovviamente non risparmiò nemmeno l’Astronomia. Questa aveva iniziato a svilupparsi notevolmente sia grazie al grande miglioramento degli strumenti per le osservazioni, sia perché aveva fatto propri i metodi e gli approcci scientifici della Fisica, trasformandosi in Astrofisica.

In questo contesto, nei primi anni del ‘900, dopo decenni di scoperte sensazionali e rivoluzionarie sulle proprietà spettrali della luce proveniente dalla nostra stella, George Hale scoprì che il Sole ha un campo magnetico, grazie alle osservazioni sulle macchie solari che risultarono essere sede di intensi campi magnetici.

La portata di questa scoperta fu enorme. Da qui si iniziò a comprendere lo stretto legame esistente tra campo magnetico e attività solare. Il campo magnetico solare infatti è all’origine di molti fenomeni che avvengono sul Sole e che vengono indicati genericamente come attività solare.

Ciò che sulla scia di Hale è stato scoperto sul magnetismo solare, è che il Sole è caratterizzato dalla presenza di campi magnetici a tutte le scale spaziali. Dalla scala globale alla scala più piccola osservabile con gli attuali telescopi (come si dice, al limite di risoluzione) il Sole è permeato da un campo magnetico.

Per saperne di piu’ su come è fatto il Sole, prima di proseguire puoi leggere questo post.

Come si manifesta il campo magnetico del Sole?

Sotto quale veste ci appare il campo magnetico solare? All’osservazione, la manifestazione più evidente (e forse più nota) della presenza di campi magnetici è costituita dalle macchie solari, che hanno un tempo di vita caratteristico di alcune settimane. Si tratta di regioni che si differenziano dalle zone circostanti a causa della temperatura minore e dalla forte intensità magnetica.

Macchie solari

In una macchia solare il campo magnetico che emerge in fotosfera è abbastanza intenso da inibire il trasporto di energia per convezione dagli strati più interni a quelli più superficiali della stella. Per via di questo approvvigionamento di energia meno efficiente la parte più interna delle macchie, l’ombra, è caratterizzata da temperature più basse (circa 4000 K) rispetto alle regioni circostanti alla macchia (tra i 5600 e i 5800 K). Questo contrasto di temperatura corrisponde ad un contrasto di intensità della luce che proviene da questa regione di ombra, motivo per cui essa appare più scura rispetto al resto. Tipicamente l’ombra è circondata da una zona all’apparenza filamentare in cui la temperatura (e quindi l’intensità) è un poco più alta ed intermedia tra l’ombra e la fotosfera quieta, motivo per cui si parla di penombra. Anch’essa è chiaramente associata alla presenza di campi magnetici, ma a differenza dell’ombra dove il campo emerge pressoché verticalmente, nella zona di penombra si ritiene che il campo magnetico abbia una pronunciata componente orizzontale, quasi aprendosi ed appoggiandosi sulla fotosfera.

Immagine di macchia solare acquisita il 6 Novembre 2005 dal telescopio VTT presso l’osservatorio NSO in Colorado, USA. Credit: NASA.

Altre strutture complesse possono essere osservate nelle macchie solari. Ad esempio i light bridges (“ponti di luce”) strutture associate a intrusioni di plasma caldo tra le linee di campo magnetico. Si ritiene siano uno dei segnali del decadimento della macchia.

Gli umbral dots (letteralmente “punti nell’ombra”) appaiono invece come puntini brillanti nell’ombra. La loro natura è ancora molto dibattuta. Potrebbero corrispondere a intrusioni di plasma dovute ad instabilità, oppure rappresentare quelle regioni in cui il plasma caldo (e quindi brillante) tenta di emergere nell’ombra prima di raffreddarsi e ricadere verso il basso.

Oltre alle macchie solari, altre strutture facilmente identificabili in fotosfera sono i pore (letteralmente “pori”). Si tratta di strutture che appaiono come piccole macchie prive di penombra, e che similmente all’ombra delle macchie, sono associate all’emersione in fotosfera di campi magnetici verticali. Rispetto alle macchie, che sono molto più longeve, il loro ciclo di vita si esaurisce tipicamente in ore o al massimo pochi giorni.

Macchie e pori (soprattutto le prime) tendono ad organizzarsi in gruppi (spesso in coppia) con polarità magnetica opposta. Il numero e la posizione delle macchie sono una spia del livello di attività del Sole e dello stato del ciclo solare. In particolare, più l’attività solare è elevata, maggiore è il numero di macchie e gruppi di macchie presenti in fotosfera.

Le leggi di Hale e il modello di Babcock

E questo ci riporta nuovamente ad Hale ed ai suoi studi. Via via che si iniziarono a misurare i campi magnetici sul Sole e a determinare la loro polarità (positiva o negativa) fu chiaro che:

  • Prima legge di Hale. Nei sistemi bipolari di macchie, la macchia che precede (nel senso della rotazione solare) nell’emisfero Nord ha polarità opposta rispetto alla macchia che precede nell’emisfero Sud. Inoltre le macchie che precedono hanno segno opposto rispetto a quelle che seguono in entrambi gli emisferi.

  • Seconda legge di Hale. La polarità di macchie che precedono o seguono in sistemi bipolari si alterna, in entrambi gli emisferi, nei cicli successivi. Per questo quando si tiene conto anche della polarità magnetica delle macchie si dice che il ciclo solare è di 22 anni. Dopo tale tempo le macchie che precedono (o che seguono) in un emisfero hanno la stessa polarità.

Le leggi di Hale possono essere spiegate, come fece l’astronomo americano Horace W. Babcock nella metà del secolo scorso, tenendo presente che il Sole non ruota uniformemente come un corpo rigido intorno al proprio asse di rotazione. Piuttosto mostra una cosiddetta rotazione differenziale in virtù della quale, la velocità di rotazione all’equatore solare è maggiore di quella in corrispondenza dei poli. Questo fa sì che il campo magnetico trascinato dal plasma solare si avvolga intorno al Sole più velocemente all’equatore che ai poli. In questa matassa di campo magnetico, tanto più complessa quanto più procede la rotazione, si creano strutture di campo stirate in cui il campo aumenta in intensità fino a diventare talmente intenso da espellere il plasma intorno a sé, creando una sotto-densità del plasma intorno al campo magnetico. Questo ha una densità molto più bassa del plasma circostante e inizia a galleggiare verso la fotosfera, come un pallone tenuto sott’acqua e poi lasciato andare. Sono proprio questi campi magnetici che affiorano in fotosfera che danno origine a macchie, gruppi di macchie e, in generale, a regioni attive. Non sempre però le regioni attive danno luogo a macchie.

Non solo macchie. Altri indizi sull’attività solare.

L’attività solare non si manifesta soltanto attraverso la presenza di macchie in fotosfera. Ci sono infatti numerosi altri fenomeni variabili modulati dall’attività e che, anche in questo caso, vedono coinvolto il campo magnetico solare.

All’aumentare dell’attività, ad esempio, aumenta la frazione di disco solare coperto da campi magnetici a piccola scala, che possono essere modellati come tubi di flusso magnetico sottili. Essi risultano visibili sia in fotosfera (dove prendono il nome di facole) sia in cromosfera (dove si parla di plage). Emergono all’osservazione come punti più brillanti del contesto in cui sono immersi, cosa che si ritiene essere dovuta alla loro sottigliezza e al fatto di avere una bassa densità di plasma al loro interno, motivo per cui lasciano trasparire il plasma caldo che invece li circonda.

Insieme alle macchie queste strutture giocano un ruolo fondamentale nel modificare l’irradianza solare, ossia la potenza per metro quadro ricevuta dal Sole sulla sommità dell’atmosfera terrestre. Questa grandezza, indicata storicamente come costante solare è di circa 1361 W/m^2. In effetti costante non lo è affatto, in quanto mostra variazioni sia su diverse scale temporali (dai giorni al ciclo solare) sia nelle diverse bande spettrali. In particolare l’irradianza solare varia tipicamente di circa lo 0.1% con il ciclo solare, raggiungendo il massimo in fase con lo stesso.

Gli effetti delle variazioni di campo magnetico solare sulla corona

Anche la corona solare (la parte più esterna dell’atmosfera solare) subisce grandi variazioni legate alle variazioni di campo magnetico. La sua stessa forma cambia, passando da una forma quasi regolare (dilatata soltanto in prossimità dell’equatore) e poco estesa durante i minimi di attività, ad una forma molto più irregolare ed estesa nei periodi di massimo.

Immagini della corona solare al minimo di attività (in alto) e al massimo (in basso) Credit: NCAR’s High Altitude Observatory and Rhodes College

Le osservazioni e i modelli teorici costruiti per interpretare queste variazioni ci dicono che quando la struttura del campo magnetico di una regione attiva diventa estremamente complessa, si può generare una instabilità che può dar luogo a fenomeni che rilasciano grandi quantità di energia. Ne sono esempio i flares (“brillamenti”), la comparsa di prominenze eruttive e l’eventuale espulsione di massa coronale (Coronal Mass Ejection, CME) dall’atmosfera solare nello spazio circostante.

I flares sono violente esplosioni che consistono in improvvisi rilasci di energia sotto forma di radiazione. Tipicamente sono dell’ordine dei 10^22-10^25 Joule (in pratica da cento a centomila volte il consumo mondiale di energia nel 2004). Hanno tempi caratteristici di evoluzione che vanno dalle decine di minute alle ore, ma la loro fase impulsiva dura un tempo dell’ordine del minuto. Sono tipicamente suddivisi, in ordine di flusso crescente, nelle classi A, B, C, M, X, a cui eventualmente segue un numero.

Il legame tra questi fenomeni e le regioni attive, dove il campo magnetico è assai intenso e strutturato, è molto forte. Ne consegue che essi sono modulati dall’attività solare, cioè sono molto più frequenti in prossimità di un massimo solare che in prossimità di un minimo.

Uno dei flare più intensi e studiati degli ultimi decenni, l’evento della Bastiglia classificato come evento molto intenso, X5.7, è avvenuto il 14 Luglio 2000, in corrispondenza di un massimo di attività solare.

Immagine acquisita dalla missione SDO di un flare di classe X2.0 (in basso a destra) il 27 Ottobre 2014. Oltre al flare, le regioni più luminose soprattutto al centro e sulla parte sinistra corrispondono a regioni attive (Credit: NASA)

Spesso, ma non sempre, ai flares sono associate le CME. In questo caso si può affermare che flares e CMEs sono due controparti dello stesso fenomeno che scaturisce nell’atmosfera solare. Il plasma magnetizzato espulso dalle CME può raggiungere velocità tra i 300 e i 2000-3000 km/s. Vale a dire fino a circa un centesimo della velocità della luce! Un singolo evento mediamente è in grado di espellere decine di miliardi di tonnellate di plasma solare nello spazio circostante. Nei periodi di attività si possono verificare anche diverse CME al giorno. Fortunatamente non tutte sono di portata potenzialmente dannosa, e soprattutto non tutte sono dirette verso la Terra.

Immagine di una CME (in basso) acquisita l’8 Gennaio 2002 dal coronografo LASCO C2 a bordo della missione SOHO coordinata NASA-ESA.

Il vento solare

I processi che avvengono nella corona convertono l’enorme energia magnetica accumulata, in calore ed energia di movimento delle particelle di plasma dell’atmosfera stessa. In altre parole, parte dell’energia a disposizione viene spesa per riscaldare l’alta atmosfera solare mentre parte viene spesa per accelerare il plasma solare. Proprio quest’ultimo processo dà origine al vento solare.

Il vento solare è un flusso continuo ma non costante di particelle quali soprattutto protoni ed elettroni (per la stragrande maggioranza) e in misura più limitata (qualche %) di particelle alfa (nuclei di elio). Tale flusso, allontanandosi dal Sole, trascina con sé anche un po’ del proprio campo magnetico.

La velocità tipica del vento solare nell’ambiente circumterrestre è solitamente tra i 400 e gli 800 km/s circa. Gli estremi di questo intervallo di velocità caratterizzano quello che viene chiamato il vento lento e il vento veloce rispettivamente. Il primo è originato a basse latitudini solari e quindi, poiché fluisce sul piano dell’eclittica, costituisce la componente principale di vento che investe la Terra. Tuttavia quando sul disco solare si presenta, in direzione della Terra, un buco coronale a bassa latitudine, la Terra può essere raggiunta anche dal vento veloce. Esso infatti si origina proprio in quelle regioni della corona che appaiono poco luminose all’osservazione (i buchi coronali appunto).

I buchi coronali sono associati a zone in cui il campo magnetico solare è aperto, cioè le linee di campo non si richiudono sul disco solare ma si allungano verso lo spazio interplanetario. All’aumentare dell’attività solare, il disco solare si riempie di regioni attive e buchi coronali, per cui la componente di vento solare veloce tende ad alterare il flusso del vento lento in maniera piuttosto complessa. Di conseguenza, in periodi di alta attività solare più frequentemente si può misurare a Terra un flusso veloce.

Il vento solare, le CME, i flare… sono fenomeni che scaturistono dalla presenza di campo magnetico sul Sole e che hanno effetto su tutto lo spazio interplanetario. Talvolta possono raggiungere il nostro pianeta e avere, potenzialmente, forti ripercussioni. Per fortuna la Terra ha a sua volta un campo magnetico che la protegge dai fenomeni più estremi, salvaguardando la nostra stessa esistenza sul pianeta.


In copertina: Modello di campo magnetico coronale sovrapposto a immagine dello strumento AIA a bordo della missione SDO. Fonte: nasa.gov