La Terra genera un proprio campo magnetico – detto campo geomagnetico – i cui valori cambiano con il tempo e con la posizione. Il campo geomagnetico è assimilabile, in prima approssimazione, ad un campo generato da un magnete dipolo (visualizzabile come un ipotetico magnete a barra con un polo nord e sud) situato al centro della Terra. Attualmente, l’asse del dipolo è spostato dall’asse della rotazione terrestre di circa 11 gradi. Ciò significa che i poli geografici e i poli magnetici non si trovano nello stesso punto. Il campo magnetico terrestre interagisce con il campo magnetico solare.
Il campo magnetico terrestre è un campo vettoriale rappresentato da un vettore, funzione del punto di osservazione e del tempo, generalmente indicato con F.
Introducendo una terna cartesiana levogira con origine nel luogo di osservazione e assi orientati come in figura, si definiscono i seguenti elementi magnetici:
X componente del vettore nel piano orizzontale, diretta verso il Nord geografico
Y componente del vettore nel piano orizzontale, diretta verso l’Est geografico
Z componente verticale, positiva se è diretta verso l’interno della Terra
H componente orizzontale totale
F intensità totale del campo
D declinazione magnetica
I inclinazione magnetica
Il campo magnetico misurato sulla superficie terrestre è costituito da diversi contributi. Quello maggiore (oltre il 90% ) è detto campo principale e proviene dall’interno della Terra. E’ frutto di processi caotici che avvengono nel fluido esterno del nucleo terrestre, formato da ferro e altri metalli ricchi di elettroni liberi, alla temperatura di circa 4000°C. Le rocce magnetizzate presenti nella crosta terrestre contribuiscono con il campo crostale o litosferico, che si sovrappone al campo principale sotto forma di anomalie locali a regionali. Questi due contributi costituiscono il cosiddetto campo interno, poiché le sorgenti di questo campo sono poste all’interno della Terra.
Ci sono poi i contributi esterni alla superficie terrestre indotti da correnti elettriche che scorrono nella ionosfera (circa da 100 a 300 km sopra la Terra) e nella magnetosfera (a distanze dai 3 ai 6 raggi terrestri) e che variano costantemente sotto l’influenza del vento solare. I campi esterni sono molto più deboli rispetto al campo principale ma sono soggetti a variazioni molto più accentuate di quelle dovute al campo principale.
La magnetosfera è una grande cavità nel quale si trova confinato il campo magnetico terrestre. Le particelle cariche provenienti dal Sole incidono sul campo magnetico terrestre comportandosi come un vento che deforma la chioma di un albero. Per questo vengono indicate con il termine “vento solare”. Queste particelle non possono penetrare all’interno della magnetosfera, che funge quindi da scudo protettivo, se non in certe configurazioni e in certe aree ben definite, le aree polari. Le complesse interazioni del campo magnetico terrestre con il vento solare danno origine a una moltitudine di sistemi di correnti elettriche, che fluiscono a distanze tipiche da 2 a 20 raggi terrestri dalla superficie terrestre.
La magnetosfera è un sistema dinamico estremamente complesso, composto di molte regioni popolate di gas ionizzato (plasma) con proprietà fisiche diverse. Il plasma interno alla magnetosfera risente fortemente delle variazioni del vento solare e del campo magnetico interplanetario, provocando diversi fenomeni fisici, come le tempeste magnetiche, disturbi alle radiocomunicazioni e le splendide aurore polari.
La parte crostale del campo magnetico terrestre è generato da un sottilissimo strato della Terra per la possibile presenza di minerali ferromagnetici in uno spessore massimo di 30-60 km, a seconda del contesto tettonico. Essendo il processo della magnetizzazione delle rocce collegato alla storia geologica della roccia stessa, il campo di origine crostale è importante per ottenere informazioni indirette sulle strutture tettoniche e geodinamiche e sullo stato termodinamico della crosta terrestre.
La base delle osservazioni geomagnetiche globali è una rete di osservatori geomagnetici gestiti da università e istituti di ricerca di tutto il mondo. Gli osservatori forniscono le registrazioni continue del campo geomagnetico e delle sue variazioni. Gli osservatori più antichi esistono da 170 anni. In Italia le osservazioni di campo magnetico terrestre sono effettuate in tre osservatori geomagnetici: Castello Tesino (TN), Duronia (CB) e Lampedusa (AG) oltre che in alcune stazioni magnetiche: Preturo (AQ) e Gagliano (EN).
Gli apparati di misura sono equivalenti in tutti gli osservatori italiani e sono costituiti da un magnetometro vettoriale (Lemi25 o Lemi18), per la misura delle variazioni delle componenti direzionali del campo e un magnetometro scalare, per la misura dell’intensità assoluta. A queste, si associano le misure degli angoli D e I per ottenere i valori assoluti delle componenti.


I valori acquisiti dagli osservatori italiani sono visualizzabili in tempo reale a questa pagina: http://geomag.ingv.it/index.php
Le misurazioni aeromagnetiche effettuate dagli aerei sono utilizzate per mappare regionalmente le anomalie magnetiche crostali. Dal 1999 i satelliti in orbita attorno alla Terra forniscono osservazioni geomagnetiche globali di alta precisione.
In qualsiasi parte del mondo, l’ago di una bussola si orienta in direzione dei poli magnetici del pianeta. Grazie alla bussola quindi si può’ individuare la direzione Nord-Sud e orientare le carte geografiche.
I poli magnetici indicati dall’ago della bussola non coincidono però con i poli geografici, i punti in cui l’asse di rotazione interseca la superficie terrestre. Occorre quindi correggere la direzione indicata dalla bussola di un angolo ben preciso, diverso da luogo a luogo, chiamato declinazione magnetica e riportato in ogni carta topografica. Attualmente il polo nord geografico e il polo nord magnetico distano tra loro di circa 1000 km. Vedi anche Cos’è il campo magnetico terrestre?
No. E’ necessario conoscere la declinazione magnetica (l’angolo tra il nord geografico e il nord magnetico a cui punta l’ago della bussola) per ogni punto della superficie terrestre in modo da poter correggere l’indicazione fornita dalla bussola. Alle alte latitudini la declinazione magnetica può variare sensibilmente anche entro pochi chilometri di distanza, richiedendo una correzione diversa. Esistono dei calcolatori di declinazione on-line che si basano su modelli matematici che forniscono il valore della declinazione e delle altre componenti del campo magnetico in un punto di coordinate definite. https://www.ngdc.noaa.gov/geomag/declination.shtml
La forma e l’intensità del campo cambiano nel corso dei secoli, in seguito ai complessi movimenti che avvengono nel nucleo esterno terrestre. Una idea di questi cambiamenti la possiamo avere guardando come si sono spostati i poli magnetici (ove con polo magnetico si intende il punto della superficie terrestre in cui il campo geomagnetico è perfettamente verticale) nel tempo. Attualmente il polo nord magnetico si sta spostando ad una velocità media di circa 40 km l’anno.
Il campo magnetico terrestre è soggetto a continue variazioni temporali. Queste variazioni, che possono essere di diversa natura, sono suddivise in due classi principali: variazioni a lungo e a breve termine. Le prime, generalmente indicate con il nome di variazione secolare, sono dovute all’azione delle sorgenti profonde interne alla Terra, le stesse che generano il campo principale, e hanno un tempo caratteristico minimo variabile tra 5 e 10 anni; le seconde, variazioni a breve termine, sono di origine esterna al nostro pianeta e presentano tempi caratteristici della durata inferiore a qualche anno.
La variazione secolare
Il termine variazione secolare viene normalmente utilizzato per indicare l’insieme delle variazioni del campo geomagnetico che si verificano in periodi di tempo compresi tra pochi anni e qualche decina di migliaia di anni.

L’ampiezza di queste variazioni, per un dato luogo di osservazione, oscilla tra pochi nT e qualche decina di nT all’anno per le componenti intensive (X, Y, Z, H and F) e da qualche primo a qualche decina di primi l’anno per l’inclinazione (I) e la declinazione (D).
Anche se la variazione secolare sembra mostrare andamenti diversi nei vari osservatori del mondo è una caratteristica del campo principale e, per questa ragione, è rappresentativa di un fenomeno planetario. Le caratteristiche più salienti di questo tipo di variazione, che sono state dedotte osservando l’andamento temporale del campo magnetico misurato sulla superficie del pianeta nel corso degli ultimi 400 anni, sono:
- una diminuzione annuale media del momento di dipolo dell’ordine dello 0.005% del suo valore medio in questo intervallo;
- una precessione verso ovest dell’asse del dipolo di 0.008% all’anno;
- uno spostamento del dipolo verso nord dell’ordine di 2 km all’anno;
- una deriva occidentale del campo non dipolare, o parte di esso, di 0.2°-0.3° all’anno, accompagnata da una possibile ma non ben precisa deriva meridionale;
- una variazione d’intensità del campo non dipolare al tasso medio di circa 10 nT all’anno.
Oltre a queste caratteristiche regolari, la variazione secolare è spesso contraddistinta anche da fenomeni irregolari quali: i jerk geomagnetici (sulle scale di tempo più corte) e le inversioni di polarità del campo geomagnetico (sulle scale di tempo più lunghe).
Lo studio di entrambi i fenomeni è particolarmente interessante per la comprensione dei processi dinamici interni al pianeta responsabili della formazione del campo magnetico.
I jerk geomagnetici
Con il termine jerk geomagnetico si indica un rapido cambiamento nella pendenza della variazione secolare di una qualsiasi delle componenti del campo geomagnetico. Questa variazione si verifica su una scala di tempo dell’ordine di 1 anno ed è osservabile nell’andamento della variazione secolare di molti osservatori geomagnetici. Molti dei jerk verificatisi nel corso dell’ultimo secolo sono osservabili su scala globale, altri, invece su scala regionale.
Il primo jerk è stato individuato alla fine degli anni ’70. Da allora, utilizzando tecniche diverse ne sono stati individuati altri, rispettivamente negli anni: 1901, 1913, 1925, 1932, 1949, 1958, 1969, 1978, 1986, 1991 e 1999. La figura sotto riporta la variazione secolare della componente Y del campo geomagnetico in funzione del tempo per due diversi osservatori. L’andamento della variazione secolare, ovvero della derivata prima rispetto al tempo del campo magnetico, mostra chiaramente la presenza di rapidi cambiamenti di pendenza e quindi di jerk.

Attualmente l’ipotesi più accreditata sull‘origine dei jerk è quella secondo la quale questi fenomeni hanno origine all’interno della Terra essendo legati alla dinamica dei fluidi del nucleo esterno. In passato questa ipotesi è stata da alcuni messa in dubbio, attribuendo ai jerk un origine esterna, probabilmente legata agli effetti indotti dal ciclo solare.
Dunque, assumendo che i jerk siano fenomeni di origine interna, si capisce come il loro studio rivesta un ruolo di rilievo nel geomagnetismo per la comprensione dei meccanismi che generano il campo magnetico stesso ma anche per lo studio delle proprietà di conducibilità del mantello. Infatti, se tale segnale fosse realmente di origine interna, questo implicherebbe dei limiti ben precisi sui valori della conducibilità del mantello attraverso cui il campo si propaga.
Dallo studio dei jerk globali del 1969, 1978 e 1991 ci si è accorti che, di solito, questo fenomeno si osserva prima nei dati magnetici degli osservatori dell’emisfero Nord e successivamente, con un ritardo di 1-2 anni, in quelli dell’emisfero Sud.
L’ipotesi che il campo magnetico terrestre non sia sempre stato orientato come è oggi e abbia invertito la propria polarità più volte nel corso della sua storia, ha trovato conferma solo intorno agli anni ’60 a seguito di studi di paleomagnetismo condotti su campioni di roccia provenienti da fondi oceanici. Sebbene quello delle inversioni di polarità del campo geomagnetico sia uno dei più interessanti fenomeni geofisici, i meccanismi che avvengono nel nucleo terrestre e che sono responsabili di tali inversioni sono ancora poco conosciuti.
Da un punto di vista teorico, tuttavia, la possibilità che il campo magnetico terrestre possa invertire la propria polarità è noto. Infatti, le equazioni che governano l’evoluzione della dinamica dei fluidi interni al nucleo terrestre ammettono due possibili soluzioni per il campo magnetico ugualmente stabili: una in cui il campo di polarità è normale l’altra in cui il campo magnetico ha una polarità inversa. Ciò che sicuramente ancora oggi non è molto chiaro è il motivo per cui la Terra operi in due regimi: uno in cui hanno luogo le inversioni ed uno in cui quest’ultime non avvengono. Sembra comunque che un ruolo fondamentale sia svolto dai cambiamenti delle condizioni fisiche alla superficie di separazione nucleo-mantello.
Le più recenti scale di polarità del campo geomagnetico (vedi figura sotto) mostrano che negli ultimi 166 milioni di anni sono avvenute più di 300 inversioni complete del campo. Infatti, è stato trovato che il verso della parte dipolare del campo geomagnetico si inverte in media ogni 300.000-1.000.000 di anni. L’intervallo di tempo tra una inversione e l’altra è molto variabile, può andare dai 40.000 ai 35.000.000 di anni e finora non sono state trovate periodicità o regolarità nel susseguirsi delle inversioni. Infatti, lunghi intervalli in cui il campo ha mantenuto la stessa polarità possono essere seguiti da brevi intervalli con polarità opposta.
Un intervallo temporale in cui una certa polarità è stata predominante è detto crono: lunghezze tipiche sono dell’ordine degli 0.1-1 milioni di anni.
Croni estremamente lunghi sono detti supercroni. I croni sono generalmente interrotti, ad intervalli irregolari, da periodi più corti con polarità opposta a quella del crono e della durata di circa 20.000-50.000 anni, questi sono detti subcroni. A volte i record di polarità mostrano grandi deviazioni dei poli dalle situazioni di campo normale o inverso, ma la polarità non cambia completamente, il polo segue un movimento erratico verso le latitudini equatoriali ma ritorna nella sua posizione iniziale in meno di 10.000 anni: questo fenomeno è detto escursione magnetica.
Le variazioni rapide del campo magnetico terrestre sono principalmente dovute a fattori esterni alla Terra ed essenzialmente legate all’attività solare. Il Sole, infatti, è un fattore determinante per l’interpretazione sia dei fenomeni regolari (come ad esempio la variazione diurna) che di quelli irregolari che caratterizzano le variazioni magnetiche. L’emissione di radiazione solare viene accompagnata dalla continua emissione di un gas ionizzato, detto vento solare, che costituisce l’espansione della corona solare. Il nostro pianeta, come tutto il sistema solare, viene investito da questo vento il cui effetto principale è di confinare il campo geomagnetico in una cavità a forma di cometa detta magnetosfera. La modulazione del vento solare produce l’energia necessaria per le variazioni esterne irregolari del campo mentre, l’attrazione gravitazionale e le maree atmosferiche di origine termica, sono le principali responsabili delle variazioni esterne regolari.

Variazioni regolari
I magnetogrammi di un osservatorio geomagnetico rivelano l’esistenza di una struttura, nell’andamento temporale degli elementi del campo magnetico terrestre, che tende a ripetersi sistematicamente giorno per giorno; tale variazione, nota come “variazione diurna”, procede secondo il tempo locale, con forme caratteristiche per ciascun elemento interpretabili come sovrapposizione di onde aventi periodo di parecchie ore, e con un’ampiezza dell’ordine di qualche decina di nT. A volte, la variazione diurna è mascherata da variazioni irregolari che in parte la deformano. La variazione diurna media (calcolata su giorni quieti) viene chiamata Sq (solar quiet, solar indica che essa procede con il tempo locale, quiet che è caratteristica di una situazione di assenza di perturbazioni). L’ampiezza della Sq presenta un andamento stagionale con un massimo e un minimo rispettivamente nell’estate e nell’inverno locali alle alte e medie latitudini, e con un massimo agli equinozi nella zona intertropicale per H e Z. Inoltre l’ampiezza dipende dalla fase del ciclo delle macchie solari.

La variazione diurna è generata da un sistema di correnti elettriche che fluiscono nella ionosfera ad una quota di circa 400 km. Queste correnti, presenti in quella parte della ionosfera illuminata dal Sole, formano due vortici distinti: uno in ciascun emisfero. Vista dal Sole la circolazione delle correnti nei due vortici avviene in versi opposti (verso antiorario nell’emisfero Nord ed orario in quello Sud). I centri di tali vortici si trovano alle latitudini di circa ± 40° e molto vicini al meridiano del Sole.

Dato il verso di percorrenza della corrente nei due vortici, all’altezza dell’equatore si genera un flusso di corrente in direzione ovest-est che prende il nome di elettrogetto equatoriale. Questo flusso di corrente, dell’ordine di 500000 Ampere, può produrre una variazione diurna a Terra dell’ordine di 200 nT.
Variazioni irregolari
- Tempeste magnetiche
- Sottotempeste magnetiche
- Baie magnetiche

Le tempeste geomagnetiche
Generalmente, ma non sempre, la tempesta magnetica inizia con un improvviso aumento, detto SSC (da Storm Sudden Commencement), dell’intensità della componente orizzontale H del campo magnetico terrestre. L’SSC, pur essendo un fenomeno planetario può variare in latitudine e tempo locale. Immediatamente dopo l’SSC (entro un’ora) troviamo la fase iniziale della tempesta che ha inizio con un repentino aumento dell’intensità della componente orizzontale H che può, nell’arco di 2-3 minuti, aumentare fino a 30 nT.
In seguito la componente H, pur fluttuando, si mantiene con un valore elevato per alcune ore (da 1 a 10) per poi diminuire bruscamente raggiungendo un valore nettamente inferiore a quello di partenza (la fase principale). Ha inizio, a questo punto, la fase di recupero della tempesta in cui l’intensità della componente orizzontale del campo magnetico aumenta nuovamente, dapprima con un tempo di scala di qualche ora, poi di qualche giorno, fino a raggiungere nuovamente il valore pre-tempesta. Questa evoluzione è definibile su base statistica; esaminando invece le singole tempeste è possibile trovare una notevole varietà di andamenti. Ci sono, infatti, perturbazioni in cui l’andamento di H è strettamente conforme all’andamento descritto così come vi sono perturbazioni in cui non tutte le fasi sono perfettamente individuabili.
Le sottotempeste geomagnetiche
Una sottotempesta è una sequenza ordinata di eventi che si verificano nella magnetosfera e nella ionosfera principalmente quando il campo magnetico interplanetario si orienta verso sud rendendo così possibile l’aumento del quantitativo di energia che fluisce dal vento solare alla magnetosfera.
Sulla Terra l’inizio di una sottotempesta comporta l’intensificazione delle aurore polari essenzialmente nella zona aurorale intorno alla mezzanotte. Gli archi aurorali infatti tendono ad aumentare la propria intensità e ad espandersi fino a coprire gran parte del cielo. In corrispondenza di questi fenomeni si registrano forti disturbi magnetici che possono raggiungere i 1000 nT. Questi disturbi magnetici sono considerevolmente più intensi di quelli comunemente registrati alle basse latitudini dove il verificarsi delle tempeste magnetiche produce disturbi dell’ordine di qualche decina di nT. La differente intensità del disturbo è attribuibile alla diversa distanza dalla Terra delle sorgenti responsabili di tali perturbazioni. La corrente ad anello, responsabile del verificarsi delle tempeste magnetiche, ruota intorno alla Terra ad una distanza pari a qualche decina di migliaia di chilometri mentre le correnti elettriche, associate alle sottotempeste, circolano nella ionosfera ad una quota di circa 130 km.


Le baie magnetiche
Tra le più importanti variazioni irregolari registrate essenzialmente presso gli osservatori geomagnetici siti a media latitudine dobbiamo ricordare le baie. Queste variazioni si verificano in preferenza nelle ore serali e notturne con durata compresa tra 1 e 2 ore. Le baie, spesso concomitanti con le tempeste, possono presentarsi anche isolatamente; questo suggerisce che possono essere considerate come tempeste elementari. Dalle osservazioni si è dedotto che le baie sono prodotte da correnti elettriche che scorrono nella ionosfera a latitudini comprese tra 65° e 70° tali correnti vengono generate nella magnetosfera, fluiscono nella ionosfera e ritornano nella magnetosfera seguendo le linee di forza del campo.
L’unità comunemente usata per descrivere l’intensità del campo geomagnetico è nanoTesla (nT), cioè 10-9 Tesla. Attualmente l’intensità del campo magnetico è compresa tra 25.000 nT all’equatore e 70.000 nT ai poli. Il contributo del campo crostale, in alcune zone, raggiunge valori anche fino a 1000 nT. Le variazioni di campo di origine esterna hanno ampiezze di qualche centinaia di nT, che possono raggiungere qualche migliaio di nT durante forti tempeste magnetiche in aree polari. In Italia l’INGV, oltre a gestire gli osservatori geomagnetici che monitorano il campo magnetico terrestre nel tempo, effettua periodicamente, ogni 5 anni, campagne di misure magnetiche su tutto il territorio nazionale. I dati raccolti in queste campagne permettono la realizzazione della cartografia magnetica nazionale. Attualmente la Rete Magnetica Italiana consta di circa 130 stazioni distribuite in modo quanto più possibile uniforme sul territorio nazionale. Presso ognuna di queste stazioni vengono effettuate, in media ogni 5 anni, le misurazioni degli elementi del campo geomagnetico. I dati magnetici raccolti nel corso delle campagne di misura presso i capisaldi della rete magnetica nazionale, opportunamente elaborati, permettono la realizzazione di una cartografia in cui viene riportato su di una mappa il campo magnetico espresso dal valore dei suoi elementi, nonché la loro variazione temporale. L’ultima carta magnetica per l’Italia (relativa all’anno 2015) è stata realizzata nell’ambito della collaborazione fra l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e Istituto Geografico Militare Italiano (IGM). Compilata in quattro fogli sulla base delle misure magnetiche eseguite su 133 capisaldi della Rete Magnetica Italiana (inclusi 2 Osservatori, 11 capisaldi in Albania e 3 capisaldi in Corsica) descrive i valori degli elementi magnetici D, H, Z nonché dell’intensità F per l’Italia, per l’anno 2015.0, alla scala 1:2000000. Questa carta è disponibile sia in formato cartaceo che elettronico.Carta magnetica d’Italia, 2015.0. Componente D. Le immagini 1, 2, 3, 8, 9, 10 e 13 sono a cura dell’ufficio grafica INGV.
Il paleomagnetismo è una disciplina che si occupa dello studio della magnetizzazione rimanente preservata dalle rocce, indotta dal campo geomagnetico esistente al momento della loro formazione. Il paleomagnetismo si basa dunque sulla misura ed analisi delle proprietà magnetiche delle rocce e sulla comprensione dei processi di acquisizione della loro magnetizzazione “fossile” (o rimanente). In uno studio di paleomagnetismo ci si prefigge quindi di riconoscere quante componenti di magnetizzazione rimanente ci sono in una roccia, di definire la loro orientazione e di datare il momento della loro acquisizione. Questo è possibile attraverso sofisticate analisi di laboratorio e mediante specifici test di terreno.

I dati paleomagnetici ottenuti permettono di stimare la direzione, l’intensità e la polarità del campo magnetico generato nel nucleo liquido della Terra e i suoi cambiamenti nel corso del tempo geologico. Dall’analisi del record magnetico nelle rocce, infatti, oggi sappiamo che il campo magnetico nel passato si è invertito ripetutamente di polarità (scambiando di posizione i poli geomagnetici N e S) ed è stato soggetto a significative variazioni della sua intensità

L’analisi del campo magnetico preservato nelle rocce è stata ed è una importante fonte di informazioni per capire e ricostruire l’evoluzione della Terra nel passato geologico. Il paleomagnetismo ha assunto un ruolo importante nel decifrare la storia del nostro pianeta e nel fornire le evidenze sperimentali della tettonica a placche a scala globale. I dati paleomagnetici sono stati inoltre molto importanti per comprendere problemi di geodinamica e tettonica sia a scala regionale che locale.
Nell’ambito delle Scienze della Terra infatti il paleomagnetismo viene utilizzato per condurre diversi tipi di studi volti alla ricostruzione della evoluzione e sviluppo di catene montuose arcuate, oppure alla ricostruzione di mappe paleogeografiche determinando la posizione nel passato delle terre emerse e ricostruire il loro percorso.

Gli studi paleomagnetici si occupano inoltre della ricostruzione delle variazioni del campo magnetico terrestre nel corso dei tempi geologici, dello studio dell’alternanza delle polarità magnetiche in un sequenza rocciosa (magnetostratigrafia) ed ancora della ricostruzione dei cambiamenti ambientali, climatici e oceanografici occorsi nel passato geologico (magnetismo ambientale), come ad esempio l’alternarsi delle fasi di glaciazione e deglaciazione.
Le rocce hanno come proprietà quella di registrare il campo magnetico terrestre perché al loro interno contengono alcuni particolari minerali ad alto contenuto in ferro che sono ferromagnetici (in senso lato). Il campo di minerali di interesse per il paleomagnetismo comprende ossidi e idrossidi di ferro. Tra più comuni presenti nelle rocce terresti ricordiamo: Magnetite, Ematite, Maghemite, Goethite, Pirrotina e Greigite.


Questi minerali, al momento della formazione delle rocce si comportano come gli aghi delle bussole e si orientano secondo la direzione del campo magnetico terreste, rimanendo congelati nella stessa direzione durante lo scorrere dei tempi geologici. La figura mostra un esempio: durante il Triassico Medio (235 Milioni di anni fa), una roccia al momento della sua formazione acquisisce una magnetizzazione indotta dall’azione del campo magnetico presente in quel momento (frecce rosse riquadro a). Tale magnetizzazione è mantenuta inalterata per centinaia di milioni di anni. In un’epoca successiva (riquadro b) per esempio nel Quadernario (400 mila anni fa), anche in presenza di un campo magnetico opposto la roccia mantiene la stessa magnetizzazione acquisita. Datando la roccia si è dunque in grado di risalire alle caratteristiche che il campo magnetico terrestre aveva al momento di formazione della roccia.
Tutte le rocce possiedono una magnetizzazione rimanente dovuta alla presenza di minerali magnetici. Ogni roccia acquisisce una magnetizzazione al momento della sua formazione detta “primaria”. Le modalità di acquisizione sono diverse per i diversi tipi di rocce, ma dipendono tutte dalla azione del campo magnetico terrestre nel corso della litogenesi.
Prendiamo il caso di rocce ignee di tipo effusivo. Quando la lava si raffredda (Fig. a), al suo interno si formano molti minerali alcuni dei quali (presenti in piccole quantità) sono dotati ferromagnetici (aghi celesti Fig. b). Questi minerali sono molto sensibili alla presenza del campo magnetico terrestre presente in quel momento (frecce verdi) e quando il processo di raffreddamento avanza fino ad arrivare ad una temperatura inferiore a quella di Curie (caratteristica di ogni minerale ferromagnetico) questi si orientano parallelamente alla direzione del campo (Fig. c). Rimangono poi immobilizzati, nella stessa direzione, all’interno della roccia consolidata conferendole una magnetizzazione permanente che rimarrà invariata nel tempo geologico.

Qualcosa di simile accade anche per le rocce sedimentarie. Come riportato in figura immaginiamo dei granuli di minerali ferromagnetici che dal fiume arrivano al mare, decantando poi verso il fondo, passando da acque turbolente a acque calme. Questi granuli posseggono un piccolo campo magnetico e, a causa dell’influenza del campo magnetico presente in quel momento (freccia verde), durante le deposizione e la compattazione del sedimento si orientano secondo la sua direzione. I granuli risultano così orientati tutti nella stessa direzione conferendo alla roccia sedimentaria una nuova magnetizzazione stabile. Questa magnetizzazione diventa stabile durante la fase di diagenesi, ovvero quando il sedimento incoerente diventa roccia.

Il paleomagnetista inizia in suo lavoro prelevando una serie di campioni dalle rocce affioranti sulla superficie terrestre. Il campionamento, generalmente viene effettuato con un carotatore portatile, raffreddato dalla circolazione di acqua. I campioni vengono poi orientati nel foro eseguito nella roccia ed infine rimossi e siglati. Successivamente i campioni vengono portati in laboratorio e tagliati in due cilindri gemelli (della dimensione standard di 2.5 cm di diametro per 2.2 cm di altezza). I campioni sono successivamente misurati in strumenti specifici (magnetometri) ad alta sensibilità per determinare l’orientazione (inclinazione e declinazione) e intensità della magnetizzazione rimanente, al fine di risalire alla definizione del campo magnetico terrestre presente nel passato geologico al momento della formazione della roccia.
Il campo magnetico terrestre è l’unica grandezza fisica che caratterizza il pianeta Terra che può essere studiata anche nel passato geologico. Le rocce hanno la proprietà di congelare la magnetizzazione acquisita in un momento del passato geologico ed il paleomagnetismo, che studia questa magnetizzazione “fossile”, permette di estendere nel passato le osservazioni sulle caratteristiche e variazioni del campo magnetico terrestre. Una proprietà che è stata scoperta attraverso queste osservazioni è proprio la inversione di polarità del campo geomagnetico. Tale scoperta è il risultato di molteplici osservazioni condotte su sequenze stratigrafiche esposte in superficie e caratterizzate dall’alternanza di rocce con polarità secondo la direzione del campo magnetico attuale e con polarità invertita (ovvero con il polo Nord magnetico in prossimità del polo Sud geografico, figura b). Ad oggi non sono stati compresi ancora fino in fondo i motivi per cui queste inversioni accadono ma una cosa è certa il campo magnetico nel corso del passato geologico si è ripetutamente invertito di polarità.

Un potente metodo per estendere nel tempo le analisi delle inversioni di polarità del campo magnetico è fornito dallo studio delle anomalie magnetiche dei fondali oceanici.

Nella figura seguente sono rappresentazione delle anomalie magnetiche nei fondali oceanici che hanno confutato la teoria della tettonica a placche. La linea tratteggiata indica la dorsale oceanica dalla quale fuoriesce lava che raffreddandosi genera nuova crosta oceanica magnetizzata secondo la polarità del campo magnetico presente al momento della eruzione. Le anomalie positive, sono quelle rocce con una magnetizzazione come quella attuale (bande colorate); quelle negative sono rocce con magnetizzazione inversa (bande marroni). La simmetria nella distribuzione e l’ampiezza delle fasce magnetiche suggerisce che la roccia si sia formata a seguito del raffreddamento di lava fuoriuscita lungo la dorsale (linea tratteggiata), magnetizzandosi secondo il campo magnetico presente al momento della eruzione. In seguito si è allontanata parte da un lato e parte dall’altro della dorsale per il continuo riformarsi nella zona della dorsale di nuova roccia (crosta oceanica) come mostrato dal passaggio dal tempo 1 al tempo 3. Tali anomalie sono state imputate alla magnetizzazione rimanente delle rocce, magnetizzate alternativamente con polarità normale ed inversa. Tale interpretazione delle anomalie magnetiche oceaniche ha portato la conferma sperimentale dell’espansione dei fondali oceanici e ha portato alla nascita della teoria della tettonica a placche.
Gli studi paleomagnetici sia di rocce continentali che oceaniche hanno messo in evidenza che il campo magnetico terrestre si è invertito sin da epoche antichissime, con frequenza delle inversioni e durata delle polarità variabile.
Integrando i dati ottenuti dagli studi paleomagnetici con altri metodi di datazione delle rocce si è costruita una scala cronologica delle inversioni (scala magnetostratigrafica)

La scala magnetostratigrafica come riportata nella tabella in figura è assimilabile nell’aspetto al codice a barre degli alimenti, in cui si alternano bande nere e bianche.

Le bande nere indicano periodi a polarità normale ovvero con il polo nord orientato come l’attuale, mentre le bianche periodi a polarità inversa. La scala magnetostratigrafica è suddivisa in epoche magnetiche (o Chron) all’interno di ogni epoca sono stati individuati momenti di inversione molto più brevi definiti eventi magnetici (o sub-Chron). L’epoca magnetica in cui viviamo a polarità normale e l’ultima inversione è avvenuta circa 780 mila anni fa quando si è passati da un’epoca a polarità inversa ad una a polarità normale (passaggio Brunhes-Matuyama) in cui viviamo oggi.
Ci troviamo in un periodo di declino dell’intensità del campo magnetico terrestre ma non possiamo affermare con certezza se o quando si verificherà la prossima inversione di polarità magnetica. Sulla base delle misurazioni del campo magnetico terrestre prese dal 1850 circa, alcuni ricercatori stimano che il momento di dipolo decadrà in circa 1.300 anni. In ogni caso, anche se il campo magnetico terrestre avesse iniziato un percorso di inversione, ci vorranno ancora diverse migliaia di anni per completarla. Durante una inversione di polarità la Terra conserverà un campo magnetico, sebbene con valori di intensità assai minori del normale e probabilmente con una configurazione più complessa di quella dipolare.
L’atmosfera è lo strato gassoso che circonda il nostro pianeta ritenuto dal campo gravitazionale terrestre. Nella letteratura scientifica l’atmosfera viene convenzionalmente suddivisa in regioni o “sfere” individuate dalle variazioni dell’andamento della temperatura con la quota. La bassa atmosfera include la troposfera (≈0-15 km), la regione in cui risiedono la maggior parte dei fenomeni meteorologici. Per media atmosfera si intende la stratosfera (≈15-50 km), la porzione atmosferica in cui si trova la massima concentrazione di ozono, e la mesosfera (≈50-85 km), la regione più studiata per la comprensione degli effetti del cambiamento climatico. L’alta atmosfera include la termosfera (≈85-600 km) e l’esosfera (>600 km).
Processo in virtù del quale un atomo o un gruppo atomico acquistano una carica elettrica passando dalla neutralità allo stato di ione, positivo o negativo.
La ionosfera si estende dalla media all’alta atmosfera, tra circa 50 e 1000 km sopra la superficie terrestre. La presenza nell’alta atmosfera terrestre di elettroni e ioni liberi è dovuta principalmente al fatto che i gas che la costituiscono sono continuamente sottoposti all’azione ionizzante della radiazione solare UV e X. Oltre all’azione ionizzante del Sole, che fornisce il massimo contributo, bisogna considerare anche i raggi cosmici che, seppur in minima parte, sono causa anche loro della presenza di elettroni e ioni liberi nell’atmosfera. Alle alte latitudini, inoltre, il continuo afflusso di particelle cariche di origine prevalentemente solare costituisce un’altra sorgente di ionizzazione. La ionosfera viene descritta dall’andamento della densità elettronica, che varia mediamente tra 107 e 1012 e/m3, in funzione dell’altezza e individua le regioni D, E, F.

La parte più bassa della ionosfera costituisce la regione D (50÷90 km). In condizioni di quiete questa regione è presente solo di giorno, mentre, in concomitanza di flussi di elettroni e protoni ad alta energia provenienti dal Sole associabili a disturbi di natura geomagnetica, addizionali strati D di ionizzazione possono essere prodotti in qualsiasi momento del giorno e della notte.
La regione E (90÷140 km), che caratterizza principalmente la ionosfera diurna, è solitamente costituita da un solo massimo di densità elettronica, lo strato E, a circa 120 km e, come la regione D, è caratterizzata da una prevalenza di ioni pesanti (O2+, NO+) su ioni leggeri. Come lo strato D anche lo strato E segue un tipico andamento diurno con un massimo in corrispondenza del mezzogiorno locale.
In essa si raggiungono le massime concentrazioni di densità elettronica. La parte più bassa di questa regione, in cui prevalgono ioni leggeri (essenzialmente O+ e H+), mostra una variazione differente rispetto alla parte superiore; ciò ha portato ad una suddivisione della regione in due strati: lo strato F1, essenzialmente uno strato diurno estivo, e lo strato F2, che di notte comunque si fondono in un unico strato F. Oltre il massimo dello strato F2 la densità elettronica inizia a decrescere monotonamente e la ionosfera superiore va lentamente sfumando nella sovrastante magnetosfera.
La ionosfera varia nello spazio nel tempo perché varia la concentrazione degli elettroni liberi. Le cosiddette variazioni regolari sono ascrivibili all’ora del giorno, alla stagione, alla latitudine e al ciclo solare. Le variazioni irregolari sono quelle conseguenti alle variazioni del campo geomagnetico ad opera di perturbazioni solari, oppure quelle legate a variazioni dell’atmosfera neutra in cui la ionosfera risiede.
Nella ionosfera la densità di elettroni e ioni liberi raggiunge valori tali da influenzare l’indice di rifrazione delle onde elettromagnetiche. Le onde elettromagnetiche HF (High Frequency: 3-30 MHz) vengono riflesse dalla ionosfera permettendo la comunicazione tra una coppia di stazioni (trasmittente-ricevente) poste a grande distanza.
Il sondaggio ionosferico si effettua utilizzando un sistema radar in banda HF usualmente detto ionosonda. Il trasmettitore (TX) emette brevi impulsi di energia a radiofrequenza verso la ionosfera che li riflette; il ricevitore (RX) registra il ritardo temporale tra la trasmissione e la ricezione degli impulsi.

Variando la frequenza della portante degli impulsi viene registrato il tempo di ritardo a diverse frequenze. Tale registrazione, di solito presentata sotto forma di grafico, è detta ionogramma. Dall’analisi di uno ionogramma è possibile ricavare informazioni su numerosi parametri ionosferici che rivestono un ruolo importante sia per studi di fisica ionosferica, sia per scopi di radio comunicazione.

ll sistema GPS (Global Positioning System) è un sistema di radio posizionamento satellitare basato su una costellazione di 24 satelliti posti in orbita intorno alla Terra a circa 20200 km di quota.
Questo sistema è stato sviluppato dal Ministero della Difesa degli Stati Uniti (United States Department of Defense) per applicazioni militari. Il sistema GPS ha trovato in seguito vastissima applicazione tra gli utenti non militari e per scopi di ricerca scientifica. Più recentemente si sono aggiunti sistemi di posizionamento satellitare aggiuntivi, quali GLONASS (Russia’s Global’naya Navigatsionnaya Sputnikovaya Sistema), il sistema cinese BeiDou Navigation Satellite System e il nascente sistema europeo Galileo. Questi sistemi vengono complessivamente identificati come GNSS (Global Navigation Satellite System).
Nel loro viaggio tra il trasmettitore a bordo dei satelliti GNSS (GPS, GLONASS, Galileo, ecc.) e il ricevitore a terra i segnali subiscono due effetti dovuti all’esistenza della ionosfera: un ritardo nella propagazione ed effetti rifrattivi e diffrattivi sull’ampiezza e sulla fase del segnale ricevuto. Il primo effetto, che si presenta, in qualsiasi condizione, è dovuto all’interazione tra i segnali emessi in banda L (1-2 GHz) e la presenza di elettroni liberi. Il secondo effetto, tipico dei periodi disturbati, è noto come scintillazione ionosferica, ed è dovuto ad una distribuzione disomogenea degli elettroni liberi in ionosfera. Entrambi gli effetti contribuiscono all’errore che viene attribuito al posizionamento satellitare. In caso di scintillazione di forte intensità si possono verificare delle interruzioni di ricezione, con conseguente perdita del servizio di posizionamento. In condizioni quiete l’errore medio sul posizionamento che tipicamente viene associato alla ionosfera è dell’ordine di alcuni metri.

L’interazione tra i segnali GNSS e la ionosfera modifica la propagazione dei segnali stessi. Per questo motivo ciò che il ricevitore GNSS posto a terra riceve è un informazione che mantiene memoria del passaggio del segnale in ionosfera. Tramite opportune elaborazioni dei segnali acquisiti dai ricevitori GNSS, quindi, è possibile estrarre alcune importanti informazioni sulla ionosfera.

Il termine meteorologia spaziale (dall’inglese “Space Weather”) è utilizzato per identificare quella disciplina scientifica che si occupa della comprensione e della possibile previsione dei diversi processi che avvengono sul Sole, nel vento solare, nella magnetosfera terrestre, nella ionosfera e nella termosfera e che possono influenzare il funzionamento e l’affidabilità di sistemi tecnologici nello spazio o a terra e che possono risultare pericolosi per la salute degli esseri umani.
La geofisica applicata utilizza delle tecniche di esplorazione del sottosuolo (magnetometria, tomografia elettrica, elettromagnetismo, gravimetria), che si basano su noti principi di fisica terrestre, per studiare e caratterizzare la parte più superficiale della crosta terrestre. In questo modo è possibile acquisire, in maniera non invasiva, informazioni importanti sulle caratteristiche e sull’assetto geologico del sottosuolo senza dover necessariamente ricorrere ad uno scavo o una perforazione diretta del terreno.
Eseguire un rilievo geofisico del sottosuolo significa misurare, dalla superficie del terreno, dei segnali associati a determinate caratteristiche del sottosuolo. Per fare ciò, si utilizzano degli strumenti specifici in grado sia di rilevare il segnale spontaneamente e costantemente emesso dalla Terra (es. campo magnetico, campo gravitazionale), sia di misurare la risposta del sottosuolo alla propagazione di segnali generati in superficie da appositi apparati strumentali.
Il principio dell’induzione elettromagnetica è regolato dalle note equazioni di Maxwell che spiegano l’interazione reciproca tra il campo magnetico e il campo elettrico nello spazio. Se facciamo circolare una corrente elettrica in una bobina essa genererà un campo magnetico che si propaga nello spazio circostante e nel sottosuolo. Questo campo magnetico variabile, attraversando un conduttore (il terreno), induce in esso delle correnti elettriche. Queste correnti indotte si propagano nel mezzo generando, a loro volta, un campo magnetico definito “secondario” che può essere rilevato in superficie da un’altra bobina (antenna) posta a una certa distanza da quella trasmittente.
La resistività elettrica è una grandezza fisica – misurata in Ωm (ohm per metro), caratteristica di ogni materiale, che indica la resistenza incontrata dalla corrente elettrica nell’attraversarlo. Essa dipende da diversi fattori quali, ad esempio: porosità, presenza di fluidi, composizione mineralogica, grado di fratturazione, grado di saturazione, nonché la presenza di sostanze organiche; pertanto, il suo valore può cambiare di diversi ordini di grandezza anche all’interno delle singole classi di rocce e terreni al variare di questi parametri.
La suscettività magnetica è una grandezza adimensionale che descrive la capacità di una sostanza di magnetizzarsi in presenza di un campo magnetico esterno.
Tra le tecniche geofisiche più ampiamente utilizzate in campo ambientale e archeologico, vi è sicuramente il metodo magnetico. Questo metodo d’indagine consiste nel misurare le variazioni spaziali del campo magnetico terrestre dovute alla presenza nel terreno di corpi magnetizzati. Ovviamente, affinché si possa osservare una variazione significativa nelle misure magnetiche è necessario che vi sia un contrasto di suscettività magnetica tra la sorgente magnetizzata e il terreno che la contiene. La tecnica trova numerose applicazioni in campo ambientale (ad esempio: la ricerca di rifiuti ferrosi nel sottosuolo) e archeologico (ad esempio: la ricerca di strutture antropiche sepolte).
Un’anomalia magnetica è una variazione locale del campo magnetico terrestre legata a vari fattori. La mappatura delle variazioni magnetiche in una data area permette di rilevare la presenza di strutture aventi caratteristiche magnetiche diverse dal terreno circostante. Le anomalie magnetiche rappresentano in generale una piccola frazione del campo geomagnetico e per metterle in evidenza è necessario utilizzare dei magnetometri, strumenti progettati per effettuare misure di campo magnetico.
Il metodo della tomografia elettrica permette di misurare la resistività elettrica del sottosuolo attraverso una serie di elettrodi metallici, infissi nel terreno, che fungono sia da sorgenti di corrente elettrica immessa nel sottosuolo sia da ricevitori del segnale prodotto dal passaggio della corrente nel terreno. La tecnica trova numerose applicazioni in campo geologico (ad esempio: la mappatura di acqua nel sottosuolo, la mappatura delle faglie), archeologico (ad esempio: la mappatura delle strutture antropiche sepolte, cavità) e ambientale (ad esempio: la mappatura del percolato di discarica).
La tomografia elettrica capacitiva è una tecnica di prospezione geofisica che consente di acquisire, in tempi rapidi, dati sulla resistività elettrica del sottosuolo. Negli ultimi anni, questa tecnica di prospezione ha visto un crescente utilizzo per applicazioni in campo archeologico e ambientale. Il grosso vantaggio, rispetto al metodo di tomografia di resistività elettrica, consiste nella velocità di acquisizione dei dati poiché non è necessario infiggere elettrodi per energizzare il terreno. Infatti, un operatore trascina dei sensori alloggiati lungo un cavo, attraverso i quali è possibile rilevare la presenza di discontinuità nel sottosuolo siano esse di natura antropica (come muri, tombe e pavimenti) o anche di origine geologica (fratture, cavità, stratificazioni del sottosuolo).
Gli strumenti che si basano sul principio dell’induzione elettromagnetica sono comunemente impiegati per prospezioni geofisiche superficiali sia in campo archeologico (ad esempio: la ricerca di strutture antropiche sepolte) sia per applicazioni in campo ambientale (ad esempio: la ricerca di rifiuti interrati o altre forme di inquinamento superficiale del suolo). Il risultato di un rilievo elettromagnetico è restituito sotto forma di mappe tematiche, ognuna delle quali rappresenta una specifica proprietà del campo magnetico e del campo elettrico. La prima, è particolarmente sensibile alla presenza di forti conduttori come ad esempio corpi metallici; la seconda, invece, fornisce informazioni sulla conducibilità (l’inverso della resistività) dovuta alla presenza di disomogeneità elettriche esistenti nel sottosuolo.
Il sondaggio TDEM consente di ottenere un modello monodimensionale del sottosuolo, individuando degli “elettro-strati”, cioè degli strati del sottosuolo caratterizzati da una ben definita resistività elettrica. La misura prevede la realizzazione, tramite un cavo elettrico, di un loop quadrato o rettangolare in cui viene fatta circolare una corrente elettrica alternata. Il metodo TDEM, sviluppato a partire circa dagli anni ’70 per la ricerca di giacimenti minerari, è oggi ampiamente utilizzato per l’esplorazione del sottosuolo in campo idrogeologico e ambientale (ricostruzione stratigrafica del sottosuolo, mappatura del percolato in falda, ecc.).
Il georadar è una tecnica non distruttiva che utilizza brevi impulsi elettromagnetici ad alta frequenza, emessi e ricevuti da una o più antenne. Queste onde elettromagnetiche generate dall’antenna si propagano nel sottosuolo e vengono riflesse quando raggiungono un interfaccia tra materiali che possiedono differenti proprietà elettromagnetiche (resistività elettrica e costante dielettrica): tali riflessioni sono visualizzate e registrate mentre le antenne vengono trascinate sulla superficie del terreno. La profondità di penetrazione del segnale Georadar dipende molto dalla resistività elettrica del terreno e dalla frequenza dell’onda trasmessa, e può variare da pochi centimetri fino a qualche metro.
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Il termine oceanografia è composto dalle parole greche ωκεανός (“oceano”) e γράφω (“scrivere”). L’oceanografia è la branca delle scienze della terra che studia gli oceani, con particolare riguardo ai processi fisici, chimici, geologici e biologici che in essi avvengono.
L’oceanografia operativa è una branca dell’oceanografia che abbina la componente tecnologica/ingegneristica, a quella puramente scientifica, per l’osservazione ed il monitoraggio sistematico dei mari, degli oceani e dell’atmosfera. L’oceanografia operativa ha da anni sviluppato un sistema integrato di osservazioni e modelli con l’obiettivo di produrre e disseminare i dati di previsione e altri prodotti sullo stato del mare, come ad esempio portali web per la fruizione delle previsioni meteo-marine, applicazioni per la sicurezza della rotta di imbarcazioni in mare, servizi di ricerca e soccorso, servizi per la localizzazione di sversamenti di idrocarburi.
I dati in situ sono quelli misurati o campionati in mare da oceanografi su navi oceanografiche o, da sensori automatici che trasmettono i dati raccolti in tempo reale via satellite.

I processi, le attività, i fattori o gli effetti antropici sono quelli derivanti dall’attività umana, diversamente da quelli che avvengono in ambienti naturali senza alcuna influenza da parte dell’uomo.
L’inquinamento consiste nell’introduzione diretta o indiretta in un ambiente di sostanze o anche di energia capaci di trasformare gli equilibri naturali producendo anche effetti sulla salute umana. Alcune di queste trasformazioni sono irreversibili nel medio o nel lungo periodo. L’inquinamento può essere provocato da fenomeni naturali ‒ per esempio eruzioni vulcaniche, incendi, radioattività di alcune rocce ‒ o da attività dell’uomo. In entrambi i casi, vengono immesse in un ambiente sostanze estranee a esso o sostanze comuni ma in quantità tali che superano la capacità di digestione (demolizione e decomposizione) e assorbimento da parte di quell’ambiente: è il caso dell’eutrofizzazione negli ambienti acquatici o dell’eccesso di produzione di anidride carbonica che provoca l’effetto serra.
La profondità del mare è estremamente variabile che va dalla zona in cui frangono le onde sulle spiagge di tutto il mondo, alle fosse oceaniche profonde. Il punto più profondo (circa 11000 metri) risiede nella Fossa delle Marianne, nell’Oceano Pacifico occidentale. Le mappe batimetriche forniscono la rappresentazione grafica del fondale marino.

L’acquacoltura è la produzione di organismi acquatici, principalmente pesci, crostacei e molluschi, ma anche alghe, in ambienti confinati e controllati dall’uomo. Il termine acquacoltura si contrappone generalmente alla pesca, nella quale l’uomo si limita a prelevare dagli stock naturali i prodotti di cui ha bisogno, tuttavia è considerata forma di acquacoltura anche la bivalvicoltura nella quale l’intervento dell’uomo è solitamente limitato a fornire un supporto meccanico adatto all’attecchimento degli organismi acquatici, per facilitarne lo sviluppo e il prelievo finale.

Il Servizio di monitoraggio dell’ambiente marino di Copernicus (CMEMS, Copernicus – Marine Environment Monitoring Service) fornisce informazioni costantemente aggiornate sulle caratteristiche fisiche, la variabilità e le dinamiche dell’oceano e degli ecosistemi marini. CMEMS è nato per fronteggiare, da un punto di vista scientifico ed economico, le problematiche emergenti relative all’ambiente marino, utilizzando i dati provenienti dalle osservazioni satellitari e in situ. Il sistema fornisce analisi sullo stato dell’oceano e previsioni giornaliere in grado di offrire una capacità di osservazione, comprensione e anticipazione degli eventi ambientali marini senza precedenti. CMEMS fornisce un servizio informativo agli utenti dei diversi settori economici, di ricerca e sviluppo delle seguenti aree: sicurezza marittima; ambiente marino e costiero; risorse marine; previsioni meteorologiche, stagionali e climatiche. Le osservazioni e le previsioni prodotte dal servizio supportano tutte le applicazioni marine.

Il clima è la variabilità media del tempo meteorologico, su un lasso di tempo compreso fra i mesi e le migliaia, fino ai milioni di anni.
Il tempo meteorologico è lo stato dell’atmosfera in un particolare momento, in un determinato luogo, definito da temperatura, precipitazione, vento.
Il clima è la variabilità media del tempo meteorologico, su un lasso di tempo compreso fra i mesi e le migliaia, fino ai milioni di anni.
Il sistema climatico terrestre è alimentato dal Sole come una macchina ad energia solare. L’equilibrio energetico è mantenuto attraverso il trasferimento di calore dalle basse latitudini alle alte latitudini attraverso i venti e le correnti marine.


Variazioni dell’attività solare

Variazione dei parametri orbitali
Eccentricità – L’energia che la Terra riceve dal sole varia maggiormente quanto più la sua orbita intorno al sole è allungata.
Inclinazione dell’asse – L’asse terrestre oscilla tra 22.2° e 24.5°. Maggiore è l’angolo di oscillazione e maggiore è la quantità di energia solare ricevuta dai poli.
Precessione – L’orientazione dell’asse terrestre cambia gradualmente influenzando l’eccentricità dell’orbita e l’inclinazione dell’asse terrestre.
Variazione della posizione relativa dei continenti

Attività dell’uomo (agricoltura e industria)
Per paleoclima si intende il clima di periodi geologici e storici precedenti lo sviluppo degli strumenti di misura delle componenti del clima e del tempo atmosferico Prima quindi del 1600 anno in cui Galileo e Torricelli inventarono il termometro ed il barometro.
La paleoclimatologia è la disciplina scientifica che studia il clima della Terra e le sue variazioni nel corso della lunga storia del nostro pianeta. La ricerca paleoclimatica utilizza le testimonianze geologiche e biologiche (indicatori climatici) conservate nei sedimenti, rocce, concrezioni di grotta, anelli di crescita degli alberi, ghiaccio e altri archivi paleoclimatici per ricostruire il clima del passato. Le ricostruzioni paleoclimatiche forniscono indicazioni sulla variabilità del clima e dell’ambiente prima dell’avvento degli strumenti per misurare le componenti del clima.
Le ricerche paleoclimatiche coprono l’intera storia della Terra. Gli studi che riguardano gli ultimi secoli e millenni producono ricostruzioni ad alta risoluzione temporale delle variazioni delle temperature e delle precipitazioni, che costituiscono la base per quantificare e comprendere la variabilità naturale del clima. Gli studi sulle ultime decine di migliaia, milioni o centinaia di milioni di anni rivelano cambiamenti climatici legati alla posizione reciproca di Sole e Terra, a variazioni delle quantità di gas serra in atmosfera, che hanno controllato l’avvento e la fine delle ere glaciali, a cambiamenti della circolazione oceanica, e a processi geologici come il sollevamento delle montagne e la deriva dei continenti.

Il clima del passato viene ricostruito attraverso lo studio di diversi archivi paleoclimatici come: sedimenti marini e lacustri, carote di ghiaccio, speleotemi (concrezioni di grotta), anelli di crescita degli alberi, coralli. Questi contengono gli indicatori climatici fisici, chimici o biologici, che forniscono informazioni sulle variazioni del clima e dell’ambiente del passato (come livello del mare, temperatura dell’aria e dell’oceano, composizione dell’atmosfera e precipitazioni).
Per determinare l’inizio e la fine di un evento paleoclimatico e stabilirne la durata, si utilizzano i tempi di decadimento degli isotopi radioattivi (ad esempio, carbonio14, uranio-torio, uranio-piombo), che forniscono una stima numerica dell’età dell’archivio studiato (decine, migliaia, milioni di anni). A queste tecniche radiometriche possono essere associati altri metodi di datazione come la biostratigrafia (che usa il contenuto di fossili del campione per stabilirne l’età relativa), o come il conteggio degli anelli di crescita degli alberi e degli strati annuali dei sedimenti lacustri.
Per evento paleoclimatico si intende una variazione dello stato del clima passato in cui una o alcune delle variabili climatiche (temperatura, precipitazioni, ecc.) hanno valori differenti da quelli medi (più bassi o più alti).
Ogni componente del sistema Terra influenza o è influenzato dal clima. Gli ecosistemi, la disponibilità di acqua, il ciclo del carbonio, la variazione del livello del mare, la circolazione oceanica e l’acidificazione dell’oceano, tutti interagiscono con il clima e rispondono ai cambiamenti climatici. Gli studi paleoclimatici forniscono una prospettiva fondamentale per valutare l’impatto che avranno i cambiamenti climatici futuri sull’ecosistema e sulle attività umane.
Conoscere l’entità e la frequenza delle variazioni dei fenomeni climatici naturali nel passato, fornisce un quadro per mettere in atto politiche di gestione e mitigazione dell’impatto dei cambiamenti climatici futuri sull’ambiente e sulle attività umane.
Gli archivi paleoclimatici possono essere materiale geologico (sedimenti, rocce, speleotemi), biologico (anelli di crescita degli alberi, coralli) e ghiaccio. Essi contengono elementi o caratteristiche (indicatori climatici) che possono essere campionati e analizzati usando diversi metodi chimici e fisici.
Sedimenti

Le rocce sedimentarie (le più antiche risalgono a circa 4 miliardi di anni fa) rappresentano l’archivio paleoclimatico più studiato e costituiscono il mezzo per studiare il clima della terra lungo tutta la sua storia. La loro struttura e il contenuto fossilifero sono utilizzati come indicatori paleoclimatici.
Carote di ghiaccio
Il ghiaccio preserva al suo interno campioni di atmosfera del passato sotto forma di polveri, aerosol, isotopi e bolle d’aria, conservando così memoria delle condizioni climatiche presenti al momento della deposizione nevosa. Gli scienziati prelevano carote di ghiaccio per studiare i cambiamenti annuali della temperatura, precipitazione e composizione dell’atmosfera.
Speleotemi
Gli speleotemi sono depositi chimici ipogei (concrezioni di grotta come stalagmiti e colate) che, grazie ad un’elevata sensibilità ai mutamenti climatici, sono diventati uno strumento essenziale nelle ricostruzioni paleoclimatiche.
Nei diversi strati di crescita delle concrezioni posso essere registrate le variazioni di temperatura e piovosità esterne, lo sviluppo dei suoli e della vegetazione, fino ad una cadenza annuale. Le grotte in cui si sviluppano possono consentirne la crescita continua per lunghi periodi e conservarli inalterati per milioni di anni. In ultimo, ma non meno importante sono facilmente databili con la serie di decadimento dell’Uranio.

Anelli di accrescimento degli alberi
Gli anelli di accrescimento degli alberi possono essere usati per determinarne le età. Lo spessore di ogni anello dipende dalle variazioni di temperatura e precipitazione verificatesi durante la sua crescita. Utilizzando questa caratteristica i paleoclimatologi hanno ricostruito la variabilità annuale della piovosità e della temperatura degli ultimi 14000 anni. Inoltre, possono registrare eventi di diversa natura come incendi, attacchi di insetti e terremoti.
Gli indicatori climatici sono quegli elementi fisici, chimici e biologici conservati all’interno degli archivi paleoclimatici, che possono essere analizzati e correlati con i parametri climatici e ambientali misurati attualmente.
Indicatori fisici
Questi indicatori includono le caratteristiche fisiche di un sedimento come la composizione, la struttura, il colore, la densità e le proprietà magnetiche, che variano con il variare delle condizioni climatiche presenti al momento della deposizione.
Indicatori biologici
Gli indicatori biologici più comunemente utilizzati per studi paleoclimatici includono resti di microrganismi unicellulari (foraminiferi, diatomee, nannoplancton calcareo) e di organismi pluricellulari (ostracodi, pollini, ecc.), che si ritrovano abbondanti nei sedimenti marini e lacustri. Poiché la loro distribuzione è controllata dalla temperatura, salinità, quantità di luce e di nutrienti della colonna d’acqua in cui vivevano, la loro presenza nei campioni di sedimento analizzati permette di dedurre le condizioni climatiche e ambientali presenti al tempo della loro deposizione.
Indicatori chimici
La composizione chimica dei gusci degli organismi marini è un ottimo indicatore di temperatura ed umidità, essendo influenzata dalla composizione dell’acqua in cui vivevano. Per esempio, i foraminiferi utilizzano l’ossigeno presente nell’acqua di mare per costruire il loro guscio calcareo (CaCO3 ). L’ossigeno nell’acqua di mare è presente principalmente in due diversi tipi (isotopi): leggero e pesante (16O e 18O), in quantità variabile in funzione della temperatura. Il rapporto tra questi tipi di isotopi nel guscio ci può dire quanto fosse freddo l’oceano al tempo della sua costruzione. In generale maggiore è il contenuto di ossigeno pesante (18O) nel guscio, minore era la temperatura dell’acqua. Altri indicatori climatici di tipo chimico sono i biomarker: composti organici derivati dall’attività di organismi viventi che possono fornire indicazioni sulla temperatura, pH, salinità ecc.
Immagine: Patrizia Pantani
La Micropaleontologia è la disciplina che studia fossili di dimensioni comprese tra pochi millesimi di millimetro e qualche centimetro, chiamati Microfossili.
I microfossili sono un gruppo eterogeneo di fossili di dimensioni comprese tra pochi micron (come o più piccoli dei granuli della polvere) e qualche centimetro appartenenti ad organismi del mondo vegetale ed animale, sia estinti che viventi.
I principali gruppi di microfossili sono gusci e parti di organismi marini e di acqua dolce unicellulari (protisti: Foraminiferi, Nannoplancton Calcareo, Diatomee, ecc.), pluricellulari (Ostracodi, Conodonti). A questi si associano anche prodotti dell’attività delle piante terrestri (Pollini, Spore) che sono oggetto di studio della Palilnologia.
Si trovano nelle rocce sedimentarie marine e lacustri, di cui sono spesso la componente principale come nel caso delle Diatomiti, delle rocce calcaree che formano le bianche scogliere di Dover e di quelle che furono usate per ricavare i blocchi per la costruzione delle Piramidi.
Sono uno strumento importante per correlare e determinare l’età relativa delle rocce sedimentarie (biostratigrafia, biocronologia) che li contengono, e per ricostruire le condizioni paleoclimatiche e paleoecologiche al tempo della loro deposizione (paleoclimatologia).
I microfossili sono molto utili per gli scopi della micropaleontologia applicata, perché hanno un’ampia diffusione geografica, sono abbondanti nei sedimenti e nelle rocce di tutti gli ambienti marini e lacustri; hanno dimensioni ridotte per cui tendono ad essere meglio conservati, inoltre bastano pochi grammi di sedimento per ottenerne grandi quantità.

Lo studio dei microfossili avviene al microscopio attraverso l’analisi di preparati micropaleontologici. Si usano microscopi binoculari a luce riflessa (per foraminiferi, ostracodi), a luce trasmessa (per studiare vetrini e sezioni sottili di roccia per foraminiferi, nannofossili calcarei, diatomee, pollini) e al microscopio elettronico a scansione. Tuttavia anche le normali lenti di ingrandimento permettono il riconoscimento di alcuni microfossili (foraminiferi, ostracodi) e sono utilizzate durante il lavoro di campagna per individuare livelli fossiliferi.
I preparati micropaleontologici utilizzati per lo studio di microfossili sono: residui di lavaggio (per studiare esemplari isolati foraminiferi, ostracodi, conodonti ), vetrini (per lo studio di nannofossili calcarei, diatomee) e sezioni sottili di roccia (per lo studio di foraminiferi, talvolta pollini e spore).

I foraminiferi sono protozoi unicellulari, per lo più marini, provvisti di un guscio calcareo (o arenaceo) che si conserva allo stato fossile. I foraminiferi viventi sono sia planctonici ( vivono nella colonna d’acqua trasportati dalle correnti), che bentonici (vivono attaccati al fondo del mare, alle alghe, o infossati nei primi centimetri di sedimento). Hanno dimensioni comprese tra 100 micron e qualche cm. Costituiscono insieme ai nannofossili calcarei il gruppo fossile più abbondante. Questi microrganismi fecero la loro comparsa nel Cambriano (circa 540 milioni di anni fa) e sono attualmente diffusi in tutti gli ambienti marini e tutte le latitudini. In alcune aree geografiche ed intervalli geologici, i loro gusci si sono accumulati in quantità tale da formare imponenti spessori di rocce, assumendo importanza litogenetica (per esempio i calcari a Nummuliti utilizzati per la costruzione delle piramidi). Anche attualmente, i sedimenti che si depongono in molte aree oceaniche sono formati da gusci di Foraminiferi.


I Nannofossili calcarei sono i resti fossili del Nannoplancton calcareo, ovvero di alghe marine planctoniche unicellulari, i Coccolitoforidi, dotate di un esoscheletro calcareo che si conserva allo stato fossile. Le dimensioni di questi microfossili sono davvero microscopiche essendo comprese tra 2 e 30 micron. Questi microrganismi comparvero nei mari del Trias superiore (intorno a 220 milioni di anni fa) e sono attualmente diffusi in tutti gli ambienti marini. In alcune aree geografiche ed intervalli geologici, i loro gusci si sono accumulati in quantità tale da formare imponenti spessori di rocce (per esempio le scogliere di Dover). Attualmente i fanghi oceanici sono formati dall’accumulo di gusci e frammenti di Nannoplancton calcareo e Foraminiferi.



Le diatomee sono le più abbondanti alghe unicellulari, di ambiente marino e continentale, dotate di un esoscheletro siliceo. Le dimensioni sono comprese tra 10 e 200 micron. Comparvero nel Cretacico inferiore (circa 140 milioni di anni fa) e sono attualmente diffuse in ambienti marini e lacustri. In alcune aree geografiche ed intervalli geologici, i loro gusci si sono accumulati in quantità tale da formare imponenti spessori di rocce chiamate Diatomiti.

La biostratigrafia è la disciplina che studia la distribuzione dei fossili nel tempo e nello spazio al fine di correlare le rocce sedimentarie che li contengono. Essa si fonda sul principio dell’irreversibilità dell’evoluzione, in base al quale ogni specie è vissuta solo ed esclusivamente in un certo intervallo di tempo geologico, dalla sua comparsa fino all’estinzione. Suddivide ed organizza una successione di sedimentaria in unità biostratigrafiche, le biozone, che rappresentano insieme di strati definiti e caratterizzati dal loro contenuto in fossili.

La biozona è l’unità fondamentale della biostratigrafia, ed è un corpo roccioso definito o caratterizzato sulla base del suo contenuto fossilifero. I limiti (superiore ed inferiore) della biozona sono definiti da bioorizzonti.
Il bioorizzonte è una superficie, o interfaccia, attraverso la quale si manifesta un cambiamento significativo e riconoscibile nei caratteri biostratigrafici. Questo cambiamento è identificato da un evento (bioevento) nella storia evolutiva del gruppo fossile considerato, come per esempio la prima presenza o l’ultima presenza di una particolare specie (fossile guida).
I fossili guida (o marker) sono fossili essenziali per la biostratigrafia e la datazione relativa delle rocce sedimentarie che li contengono. Essi devono soddisfare alcuni requisiti come: appartenere ad organismi che hanno avuto una rapida evoluzione (cioè sono comparsi e si sono estinti in un breve periodo di tempo); essere abbondanti, facili da rinvenire, facili da riconoscere, avere un’ampia distribuzione geografica in modo da consentire la correlazione di rocce sedimentarie di aree geografiche anche molto distanti. Tra i fossili guida più conosciuti ci sono ad esempio i trilobiti e i graptoliti (usati per la biostratigrafia del Paleozoico), gli ammonoidi (usati perlopiù per la datazione relativa delle rocce del Mesozoico), i foraminiferi e i nannofossili calcarei (essenziali nella biostratigrafia del Cenozoico).