Hard disk, ferrofluido e batteri magnetotattici: il magnetismo dell’ultrapiccolo
Nel paleomagnetismo, come in tante applicazioni tecnologiche che utilizzano il magnetismo, è essenziale individuare minerali e materiali capaci di magnetizzarsi fedelmente al campo magnetico applicato, mantenendo tale magnetizzazione stabile nel tempo. Vediamone le caratteristiche e le peculiarità.
di Aldo Winkler
In natura, alcuni minerali di dimensione submicroscopica mostrano proprietà magnetiche particolari. Queste particelle, solitamente costituite da ossidi di ferro quali la magnetite (Fe3O4), sono al centro di molte ricerche a causa del loro possibile impiego in biomedicina, nell’imaging a risonanza magnetica, nell’immagazzinamento dati e nelle geoscienze. In questa rassegna si vogliono introdurre i principi che regolano la magnetizzazione dei micro e nanoparticolati, da cui derivano le rilevanti applicazioni tecnologiche.
I corpi capaci di acquisire una magnetizzazione stabile nel tempo si dicono ferromagnetici; essi sono costituiti da volumi elementari, detti domini, dotati di magnetizzazione propria. Sono quei materiali in grado di magnetizzarsi molto intensamente sotto l’azione di un campo magnetico esterno e di restare a lungo magnetizzati quando il campo si annulla, diventando così dei magneti. Vengono detti granuli singolo dominio (SD) quei minerali magnetici le cui dimensioni sono inferiori a quelle critiche per la separazione in più domini. Per un granulo di magnetite equidimensionale, tale valore teorico è pari a circa 0.080 m. Quando le dimensioni del granulo sono troppo piccole per costituire un dominio magnetico perché l’energia termica prevale sulla possibilità di mantenere una magnetizzazione rimanente, si parla di particelle superparamagnetiche (SP). Nel caso della magnetite, questo limite è circa 0.035 m. Pertanto, teoricamente, si parla di magnetite SD quando le dimensioni granulari sono comprese tra 0.035 e 0.080 m.
Nelle scienze della Terra, i minerali ferromagnetici permettono di studiare il campo magnetico del passato “fossilizzato” nelle rocce, su cui si basa la disciplina del paleomagnetismo. I minerali con proprietà magnetiche intense e stabili sono dimensionalmente SD e vengono utilizzati anche da chi costruisce dispositivi (per esempio hard disk) che debbano mantenere il loro stato di magnetizzazione nella maniera più stabile possibile nel tempo. Per fare un esempio, un granulo SD non equidimensionale di magnetite, di lunghezza 0.1 m e larghezza 0.02 m, a temperatura ambiente, perde la sua magnetizzazione in un tempo che supera l’età della Terra.
Il funzionamento di un hard disk dipende dall’associazione di ognuno dei suoi bit di informazione (1 o 0) a uno stato di magnetizzazione. La sua densità d’informazione (bit al pollice quadro) è data dal numero di domini che costituiscono un singolo bit, moltiplicato per la loro estensione superficiale media, diviso per la superficie di archiviazione. Quindi, per aumentare la quantità di dati sullo stesso disco, si deve ridurre il numero di domini che definiscono il singolo bit, oppure ridurre l’area disponibile per un singolo dominio magnetico. Nel caso in cui il numero di domini che definiscono un singolo bit si riduca all’unità e la loro area sia dell’ordine di pochi nm2, il comportamento diventa superparamagnetico, e le informazioni registrate vengono immediatamente perdute. Per questo, a parità di dimensione dell’hard disk determinata da standard costruttivi, esiste un limite fisico alla sua capienza.
In campo biologico, esiste una classe di batteri, denominati magnetotattici, che hanno la capacità di orientarsi secondo le linee di forza del campo magnetico (magnetotassi), contenendo i magnetosomi, particelle magnetiche SD rivestite da una membrana lipidica da loro stessi sintetizzate. I batteri usano il campo geomagnetico per orientarsi verso acque profonde ipossiche, a bassa concentrazione di ossigeno. Come si può studiare grazie a sofisticate tecniche magnetiche di laboratorio, i magnetosomi sono allineati in catene ordinate a debole interazione, in modo da impedirne l’agglomerazione. Il dipolo magnetico totale del batterio è sufficientemente intenso da permettere al batterio di orientarsi, vincendo i gradienti termici e le correnti agenti nell’ambiente acquoso. Questi batteri, scoperti nel 1963 da Salvatore Bellini, sono stati sottoposti a innumerevoli esperimenti, effettuati persino a bordo dello Space Shuttle, per esaminarne le caratteristiche in assenza di gravità. In questo video, si può osservare l’effetto di un magnete sul verso del moto di batteri magnetotattici. L’INGV ha recentemente collaborato all’identificazione, in prossimità della foce del fiume Neponset, in Massachussetts, di un batterio magnetotattico con una struttura a catena di cristalli di magnetite pura, ciascuno della dimensione di 20-50 nm.

I batteri magnetotattici hanno suggerito notevoli applicazioni nei settori biomedici e nanotecnologici; in questo link, si riportano i trattamenti oncologici innovativi effettuati da Sylvain Martel del Politecnico di Montreal, utilizzando il batterio Magnetococcus marinus (MC-1). Il meccanismo magnetotattico prevede l’applicazione di un debole campo magnetico per veicolare i batteri, caricati con un farmaco, in direzione del tumore. Quando i batteri raggiungono l’area tumorale, ipossica, rilasciano il farmaco, che agisce così in maniera localizzata su un’area specifica. A tale proposito, si rimanda a questo articolo per una rassegna scientifica sull’utilizzo dei batteri magnetotattici nella terapia tumorale.
Introduciamo adesso il ferrofluido, un olio contenente particelle magnetiche ultrafini superparamagnetiche, solitamente di dimensione intorno a 10 nm, rivestite di un tensioattivo per prevenirne l’agglomerazione. Il comportamento di un ferrofluido in presenza di un campo magnetico è peculiare: le particelle tendono ad allinearsi alle linee di forza del campo magnetico agente, generando curiose forme appuntite, simili a ricci.

I ferrofluidi, per la loro eccezionale risposta ai campi magnetici, sono impiegati in tutti quei dispositivi acustici e ottici in cui è essenziale una dinamica ottimale. A proposito di particelle SP, si noti che una delle loro applicazioni più comuni sono i toner, in cui gli ossidi di ferro che li compongono vengono veicolati e disposti magneticamente nel foglio di carta, per poi essere successivamente fusi, attaccandosi alle sue fibre.
Per ulteriori spunti, infine, si rimanda a un precedente contributo sul magnetismo delle polveri sottili, il noto PM10.